Divagazioni intorno ai preconcetti sul lavoro dello psicologo
Una delle modalità più frequenti con cui le persone arrivano in terapia è l’aspettativa che il terapeuta risolva i loro problemi. Questa aspettativa è frutto del pensiero magico che qualcun altro, il “Sapiente” di turno, possa avere la soluzione ai nostri guai. Per un orientamento ormai radicato nella cultura della nostra società, impariamo fin da piccoli che: il medico cura i nostri malanni, la maestra garantisce il nostro apprendimento, l’allenatore dirige la nostra performance, lo psicologo ci dà istruzioni per l’anima… ma nessuno ci insegna a prenderci cura da soli del nostro sviluppo psicofisico!
Tutto sommato è anche abbastanza intuitivo se ci fermiamo a pensare per un attimo: come può un altro esterno a me, anche se “Sapiente”, essere responsabile del mio percorso? Sente forse nella sua pelle ciò che io vivo? Coglie tutte le sfumature emotive? Conosce tutte le declinazioni della mia storia di vita? Vede tutte le mie risorse e conosce i miei limiti? O ancora, è veramente in grado di far sviluppare una risorsa, che non sia già presente dentro di me?
Dovremmo avere davanti dei maghi… ma, ahimè, abbiamo solo medici, insegnanti, allenatori, psicologi.
Ma quindi a cosa serve relazionarsi coi membri di queste categorie? Tanto vale fare da soli? Cosa devo aspettarmi se decido di consultare uno psicologo? Mi dirà cosa devo fare o mi ascolterà senza darmi nulla di concreto? Ma, allora, che ci vado a fare?
Il lavoro terapeutico è un “paziente” percorso (dove la pazienza è reciproca!) in cui il terapeuta cammina insieme alla persona, la sostiene quando ha bisogno di un bastone e la incoraggia ad andare da sola quando non serve più.
Il terapeuta è come una bussola che aiuta la persona ad orientarsi, lasciando tuttavia che la scelta della strada da percorrere la faccia lei in autonomia. Ma sostiene anche la costruzione dello zaino che servirà nel percorso: aiuta la persona a mettere a fuoco quali sono le risorse su cui può contare e come può potenziarle, quali sono i suoi limiti principali e come può smussarli per fare meno fatica.
Non avrebbe senso dire a una persona cosa deve fare, perché lo psicologo non è nella sua pelle e non può sentire tutto, neanche volendolo, né tantomeno avrebbe senso assumersi la responsabilità di scegliere per un altro, sarebbe come pensarsi divini!
La responsabilità di scegliere per gli altri è solo dei genitori verso i figli (quando sono piccoli!), ma i pazienti non sono più bambini e hanno il diritto e, forse anche la necessità, di scegliere da soli, magari anche sbagliando. Solo correndo il rischio di sbagliare possiamo imparare: come fa un bambino, che ha bisogno di cadere innumerevoli volte, prima di capire come rimanere in equilibrio dinamico per camminare su due gambe. Perché è esplorando il movimento alla luce delle sensazioni nelle gambe che arriva, tentativo dopo tentativo, a quell’equilibrio. O anche come si muove un uomo di scienza, che arriva a fare le sue scoperte proprio perché sbaglia ripetutamente e osserva i suoi fallimenti con curiosità!
Nella terapia c’è una condivisione di responsabilità: la scelta della direzione e le cadute che avvengono nel percorrerla sono attributo della persona, il paziente; quella di sostenerlo nel mantenere l’orientamento e nel rialzarsi dalle cadute è appannaggio del terapeuta.