Ogni essere vivente racchiude in sé la possibilità di crescere e arrivare a sbocciare.
Dentro ognuno di noi ci sono piccole gemme: risorse preziose piene, in potenza, di bellezza e nutrimento.
Quando pensiamo alle risorse dell’essere umano siamo soliti cercare qualità positive: coraggio, costanza, intelligenza… vorrei invece proporvi una prospettiva differente.
Vi è possibile immaginare che le nostre risorse più preziose possano essere quelle che noi sentiamo come fragilità? Forse non è così semplice, perché…
Abbiamo imparato fin dalla più tenera infanzia a vivere i nostri punti dolenti come impedimenti, vedendone il lato che limitava la nostra prestazione o la nostra riuscita sociale.
Abbiamo imparato a vergognarci del nostro non essere all’altezza, del nostro avere alle spalle una storia che non si può raccontare, del nostro esserci sentiti “complici” della nostra sfortuna.
Abbiamo imparato a nascondere queste parti di noi, camuffandoci sotto maschere di bontà e adeguatezza sociale o a tentare di strapparcele via con riti privati dolorosi.
Abbiamo imparato a invidiare gli altri: quelli sereni, perfetti, sostenuti, sicuri di sé e della loro strada.
Abbiamo imparato a rimanere soli, a isolarci e non chiedere aiuto e sostegno, a non fidarci.
Se guardiamo alla fragilità come una possibilità di crescita e non come un limite, tutte le avversità che la vita ci propone possono diventare uno spunto per migliorarci, non in termini prestazionali, ma evolutivi!
È come quando abbiamo una ferita: se ci prendiamo cura del taglio, lo medichiamo e lo aiutiamo a chiudersi, poi quel taglio muterà in cicatrice e questa diverrà la memoria di ciò che mi ha condotto a ferirmi o a essere ferito.
Nel periodo trascorso con Circe, Ulisse avrebbe potuto essere alleviato dallo sfregio delle sue cicatrici e dal dolore che ancora gli davano, ma, da uomo saggio qual’era, non ha voluto rinunciare ad esse.
Lo sviluppo delle gemme racchiuse nella ferita dipende da come userò la memoria delle mie cicatrici: mi potrà condurre sulla strada del dolore, continuamente rivangato, che farà avvizzire il germoglio o su quella della ripresa vitale, di nuovi apprendimenti che eviteranno a me e ai miei cari nuove ferite, generando nuova vita e nuove gemme.
La stessa Circe che ha avuto un passato di violenza, tradimenti e privazioni morali e fisiche, ha trovato il modo di prendersi cura di sé, di “curare le ferite”, potendo far germogliare l’amore e la fiducia: prima per Dedalo e poi per Ulisse e Telemaco, accogliendo la paura e ritrovando la propria forza vitale.
Essendo umani e non divini, come Circe (che poi umana ha scelto di diventare), spesso noi non arriviamo neppure a prenderci cura della ferita, perché abbiamo paura: non ci fidiamo degli altri e non ci sentiamo di chiedere aiuto, ci chiudiamo in noi stessi, vergognandoci.
Tuttavia, perché la gemma che è nella ferita germogli, bisogna prima calmare la paura, altrimenti il germoglio non può crescere, perché viene bruciato dal gelo o dal fuoco.
Come si fa a calmare la paura? Accogliendola come se fosse una bambina spaventata, rassicurandola con parole dolci e con un tono di voce accogliente.
La nostra reazione di solito è proprio quella opposta: ci sgridiamo perché abbiamo paura, ci sgridiamo per quello che subiamo senza reagire. Questo ha un effetto sicuro: la bambina spaventata che è in noi si agita ancora di più e si ritira ulteriormente.
Accogliere il nostro essere “difettosi”, “impauriti”, “sbagliati”, invece, consente alla bambina di rilassarsi: ne diminuisce l’irrequietezza o ne consente lo scongelamento.
Pensiamo a cosa facevamo da bambini per superare la paura di quello che ci sarebbe potuto essere nel buio?
Chiamavamo la mamma o il papà chiedendo un contatto, una rassicurazione; stringevamo il nostro peluche o la mano di un fratello; ascoltavamo una ninnananna ripetitiva e rilassante; davamo un nome alla paura “Lupo”, “Mostro” e ci alzavamo, accendendo la luce per verificare la vera natura dell’ombra; facevamo un piccolo rito tutte le sere per scongiurare l’arrivo dei mostri (una preghiera, alcuni giochi messi in posizione di difesa, una porta o una finestra chiuse bene) e poi, adottata la nostra strategia, piano piano tornavamo a rilassarci scivolando nel sonno, senza più tutto quel timore.
Il contatto fisico coi nostri cari, la voce degli amici che sostiene da un telefono o da una video chiamata; il fare cose che ci rilassano e ci danno piacere (ballare, giocare, dipingere, cucinare, camminare,…); il muoverci facendo ginnastica e ampliando il respiro; il dare nome a ciò che ci sta provocando ansia, creando piccoli rituali per contenere il nostro disagio sono risorse “invisibili” agli altri, nate dal bisogno di accudimento della nostra parte bambina, che dovremmo usare senza vergogna alcuna anche adesso, proprio perché siamo adulti e possiamo affiancare a una parte piccola e spaventata ciò che può darle sostegno!
Credo che riscoprire queste risorse sia un regalo prezioso per la nostra vita, un regalo portato dalla bufera che distrugge, spaventa, ma che come tutti i disastri, porta con sé anche qualche lato buono.
Orientando l’attenzione su cosa ci fa sentire al sicuro, risvegliamo qualcosa che abbiamo lì con noi dall’infanzia, ma che abbiamo lasciato indietro. Abbiamo anche noi in cantina un mantello dell’invisibilità, che era stato dimenticato, indossando il quale diventiamo proprio della stessa natura di ciò che ci spaventa e ci consente di confrontarci col “buio” ad armi pari, non più soli, ma con qualcosa di caldo e rassicurante sulle spalle!
Col mantello, sentendoci al sicuro, si attiva la possibilità di far sbocciare le gemme presenti nelle nostre ferite.
Articolo scritto per la collettiva d’arte: “I verbi della donna. Uno sguardo oltre”, Tregnago
Immagine: Shamsia Hassani, artista afgana
I riferimenti ad Ulisse e Circe si ispirano al romanzo: Miller, M. (2018) Circe, ed. Feltrinelli