14 Ott Stringiamoci la mano
Per un ritorno all’incontro con l’Altro
La distanza fisica che le nuove abitudini emerse dall’arrivo del Covid ha creato, ha portato anche ad una distanza psicologica. Vivevamo già in un contesto socio-culturale molto ego-orientato, dove le persone si percepivano come centro del mondo, rimanendo attonite e disorientate davanti alle frustrazioni della vita. L’isolamento sociale delle famiglie, l’aumento dei ritmi veloci nell’attività, il modello consumistico e competitivo hanno lentamente, ma inesorabilmente, alimentato questo processo, portandoci a vedere sempre meno le esigenze e le possibilità degli altri ospiti del mondo di cui facciamo parte. La modalità di gestione del Covid ha dato il colpo di grazia, portando al limite un processo che era già in divenire. La perdita del gesto prezioso del darsi la mano è a mio avviso simbolo di tutto questo.
Un po’ di storia
La stretta di mano ha origini antichissime, dobbiamo andare indietro di 5000 anni ad Egizi e Babilonesi. Questa azione era compiuta dal sovrano Babilonese che stringeva la mano alla statua del dio Marduk. Questo gesto aveva un significato simbolico: trasferiva i poteri dall’uno all’altro. Gli Assiri dovettero mantenere questa tradizione, una volta conquistato il territorio babilonese, come segno di rispetto, per evitare che la popolazione si sollevasse e, così facendo, la consuetudine divenne loro.
Nella civiltà greca e romana la stretta di mano era emblema della dea Concordia e nasceva dall’incontro tra due forestieri che appena incontratisi tiravano fuori la daga, per attendere la reazione dell’altro. Se questo non dava segno di voler combattere, l’arma veniva riposta e si stringeva il braccio dell’altro in segno che non si sarebbe ritirata fuori a tradimento. Così iniziava il dialogo. I romani usavano la stretta di mano anche per suggellare la cerimonia nuziale.
Ma è nel Medioevo che la stretta di mano diviene un gesto più comune per stringere matrimoni, patti e contratti. Nel ‘600 i Quaccheri la usarono come forma di saluto per suggellare l’uguaglianza tra persone e dall’Inghilterra e dalla Germania si diffuse in tutta Europa con questo significato.
Il presente
Ci stiamo isolando sempre di più dentro le nostra mura, dietro agli schermi, non siamo più capaci di collaborare: l’altro è visto perennemente come competitore e molto di rado come possibile alleato. L’altro è percepito lontano da noi, nel profondo ne diffidiamo: una vocina maligna sotto ci suggerisce che potrebbe fregarci o contaminarci. Abbiamo un forte bisogno di investire sul recupero della capacità di fare rete, sull’apprendimento delle modalità che consentono di creare legami di reciprocità.
Pensiamo a una Sanità dove i medici che seguono lo stesso paziente si confrontano tra loro cercando di avere una visione di insieme della situazione, si aggiornano e si consigliano sullo sviluppo del caso, invece di concentrarsi ognuno sul suo pezzetto, lasciando al paziente, già troppo occupato dal suo stare male, il compito di coordinare tutti gli interventi. Pensiamo a una Sanità che riesca a superare l’idea folle di professioni di serie A e di serie B, dove il dialogo tra i professionisti diventa fonte di comprensione del caso, perché allargando la visuale sullo stesso consente di osservarlo da più punti di vista, aumentando la potenzialità delle intuizioni rispetto al trattamento.
Pensiamo ad esempio come potrebbe essere una Scuola dove gli insegnanti, invece di competere e sentirsi giudicati, pensano insieme e si sostengono nel creare strategie per comprendere meglio il gruppo classe e gli alunni etichettati come difficili, dando ai ragazzi l’esempio di come si collabora tra pari per affrontare le difficoltà insieme. Una Scuola dove insegnanti e genitori creino un dialogo reciproco per sostenere gli uni il lavoro degli altri, invece di vedersi come antagonisti. Una Scuola in cui i docenti delle elementari e delle medie e poi delle medie e delle superiori creino progetti basati sul confronto diretto, per facilitare il passaggio dei ragazzi a modelli e richieste differenti.
Stringiamoci la mano
Come terapeuta non ho voluto rinunciare alla stretta di mano, neppure durante il periodo Covid. È bastato disinfettarsi subito prima o subito dopo per non perdere il prezioso valore di questo gesto, senza correre pericoli! Un accorgimento semplice, ma preventivo della perdita della fiducia.
Nella Società, nei vari contesti in cui ci muoviamo, abbiamo visto sparire in un soffio e senza motivo una tradizione nata 5000 anni fa e fondante il nostro sfondo culturale: stringere la mano è impedirle di essere armata! La stretta di mano passa attraverso il contatto: mi fa “sentire” l’Altro e mi permette quindi di valutare la potenzialità del mio affidarmi, basandomi su qualcosa di reale, le mie sensazioni. Stringere la mano però, permette anche all’Altro di sentire me: mi mette a nudo, mi fa sentire dall’Altro per ciò che sono, senza la possibilità del camuffamento che il linguaggio verbale offre. Senza il sentirci reciprocamente, siamo preda solo del pensare e i pensieri, non essendo consistenti, sono molto più ingannevoli e prendono facilmente la strada della diffidenza, pur senza elementi di realtà a loro sostegno.
Possiamo assumerci il rischio di sentirci e farci sentire? Possiamo provare a far ripartire il contatto umano che potrebbe consentirci di fare rete? Nell’isolamento ci solo solo pensieri che alimentano il nostro punto di vista, l’unico. Nell’incontro con l’Altro c’è il rischio della contaminazione che induce il caos e con esso nuove risorse.
“Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante”
Friedrich Nietzsche
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