Sarebbe scontato dirvi che le vittime della violenza sono da sostenere e curare, è ovvio. A questo scopo sono nati i centri anti-violenza come lo sportello Alda Merini, che abbiamo ad Albissola Marina, che servono ad accogliere e orientare queste persone verso un percorso di cura e di assistenza legale.
Tuttavia ci sono ancora pochi interventi a livello sociale, che siano rivolti alla prevenzione delle recidive delle persone che hanno aggredito.
E sono quasi inesistenti, nelle scuole, progetti di prevenzione della violenza: centrati sul fare esperienza di come riconoscere e contenere le emozioni, che invece potrebbero avere un’efficacia considerevole.
Proverò a darvi un’idea di come si muovano le emozioni dentro di noi e di cosa si potrebbe fare per imparare a contenerle, in modo da calarci un po’ di più nei meccanismi che stanno alla base dei comportamenti di chi compie e di chi subisce la violenza.
La violenza nasce in persone normali, la conosciamo tutti intimamente, perché a ognuno di noi è capitato di superare la soglia del sentire rabbia, passando ad agirla.
Uno schiaffo, delle urla, parole crudeli…
E di solito dietro a quella rabbia c’era qualcos’altro: paura di non essere amati, di non essere capiti, di non essere visti, di essere umiliati, di essere aggrediti (fisicamente e non).
Chi di noi può dire di non avere mai passato quel limite coi figli, col partner, coi genitori, con gli alunni, con gli insegnanti, con i colleghi, con gli amici…?
Lo abbiamo fatto noi, ma subito dopo non ci siamo riconosciuti in quel gesto, in quel comportamento, in quelle parole.
Io non sono così. Cosa ho fatto, detto? Come è stato possibile?
È stato possibile perché erano la rabbia o la paura a parlare. Una rabbia enorme e non proporzionata all’evento che l’ha scatenata, perché prodotta da un accumulo. Come la pressione nella pentola, quando la rabbia passa una certa soglia, c’è l’esplosione perché il contenitore non tiene più.
Come possiamo fare ad avere una pentola che tenga e non porti all’esplosione?
Imparando a contenere e non trattenere l’emozione.
Sfiatando ogni volta che ci arrabbiamo, riconoscendo che la nostra irritazione ha ragione d’essere e trovando modi adeguati per esprimerla.
Che senso hanno questi discorsi? In che modo ineriscono alla violenza?
Le emozioni si muovono come dentro alla pentola che ha un fondo e un coperchio.
Quando l’emozione supera il coperchio esce in modo esplosivo, non è più contenuta e agiamo comportamenti impulsivi, passiamo all’atto (nasce il comportamento violento). Quando oltrepassa il fondo, il fuoco sotto alla pentola si spegne e ci paralizziamo, al punto da non poter più parlare o muoverci o pensare (nasce la paralisi della vittima).
Si attiva una parte del cervello molto antica che governa le reazioni di sopravvivenza. In questo stato sono possibili solo tre comportamenti: attacco, fuga, paralisi. Perché evolutivamente sono le tre strategie che possono salvarci la vita.
Il cervello di chi è vittima di una violenza ha questa funzione iperattivata. Ma ha anche una contemporanea disattivazione della capacità di ragionare e riflettere, che governa la possibilità di cavarsi fuori dai guai. Anche il sistema che governa la nostra capacità di giocare e avere relazioni con gli altri (metterci nei panni degli altri) va in tilt.
Un bambino che abbia subito abusi e violenze ripetuti, in base al carattere e al contesto che ha intorno, più o meno ricco di appigli, attiva una di queste tre strategie di sopravvivenza: si congela, fugge o attacca.
Ma da bambini è quasi impossibile spuntarla completamente e le strategie funzionano nei termini di garantire la sopravvivenza, ma non evitano che la violenza avvenga. Nasceranno da questa base degli stili, che la persona strutturerà crescendo, propendendo per la posizione di vittima o per quella di aggressore.
Alla luce di ciò scopriamo che anche coloro che sono socialmente visti come i cattivi, quelli che agiscono la violenza, siano in realtà bambini che sono stati cresciuti nella paura e nella rabbia, che hanno imparato a dissociarsi da se stessi, cioè a non sentirsi più. Sono diventati come “oggetti” dell’aggressore e da adulti non sono in grado di sentire gli altri, perché il loro cervello al minimo stimolo attiva il circuito relativo alla sopravvivenza. Appena questo accade, loro ritornano là e allora, sono di nuovo bambini che si sentono aggredire, umiliare, insultare, tradire e si difendono attaccando violentemente. Fisiologicamente non possono mettersi nei panni dell’altro, il sistema sociale è fuori uso, perché è saltato il coperchio della pentola.
Ma questa fisiologia del loro cervello è la stessa del nostro: i cervelli funzionano tutti così!
Finché l’aggressore si sentirà attaccato non potrà interrompere il circuito di attivazione vita o morte, nello stesso modo in cui la vittima non riesce ad uscire dal congelamento, che non le consente di muoversi dalla situazione che le nuoce. L’unico modo per uscire da quel circuito di attivazione cerebrale è creare un contesto che la persona senta come sicuro.
Bisognerebbe approfondire ancora molto per capire quanto sia complessa la situazione.
Ci sarebbero ancora molte domande da sviluppare: come mai ci siano, tutto sommato, poche denunce da parte delle vittime? O come sia possibile il legame che le vittime sentono coi loro aggressori? Che ruolo abbiano la vergogna delle vittime e il disprezzo sociale degli aggressori nell’evoluzione dei loro comportamenti?
Ma oggi ci fermiamo qui, ricordandoci però che la strada verso la prevenzione passa attraverso la consapevolezza che lo stato mentale che abbiamo noi, che assistiamo agli eventi da fuori, è fondamentale per una comprensione delle dinamiche e per l’evoluzione sociale del problema. Non esistono persone diaboliche, ma solo comportamenti negativi, che emergono da emozioni che non sono contenute perché superano la capacità della pentola.
Articoli su tematiche correlate:
Vitalità: Esprimerla o contenerla?
Dal film Joker Riflessioni sparse su Scuola, Famiglia, Società