Sono state veramente numerosissime le occasioni in cui sono stata testimone di questo dilemma, a volte come psicoterapeuta che accompagnava un suo paziente ad un percorso di cura difficile o addirittura alla morte, altre come amica e figlia di persone a me care, che si sono gravemente ammalate e che poi sono mancate.
Mi sono decisa a scrivere relativamente a questo tema proprio sull’onda delle esperienze delle quali sono stata testimone, sperando che queste parole possano essere uno spunto per la riflessione in primo luogo per i medici, che si trovano quotidianamente davanti a questo dilemma, ma non secondariamente anche per i familiari, che lo vivono inevitabilmente con molto più pathos.
La situazione più frequente nella quale sono incappata è stata quella in cui medici e familiari erano, non sempre consapevolmente, spaventati all’idea di comunicare la diagnosi fatale o semi-fatale alla persona malata, temendo un potenziale effetto tremendo sul suo animo.
Tutte le volte che si è configurata questa situazione dall’altra parte c’era un paziente che bramava sapere della sua sorte e che era spaventato dal non capire, molto più che dal constatare la potenziale gravità della malattia.
Questa è, infatti, la realtà più comune: il paziente è protetto da familiari e medici, che tergiversano settimane, quando non sono mesi, nel dargli una chiara spiegazione di ciò che gli sta capitando e di quelle che potrebbero essere le potenziali conseguenze.
Premesso che esistono situazioni, nella mia esperienza molto rare, di persone che non vogliono sapere e verso le quali sarebbe violento infliggere tutta la conoscenza di ciò che avviene in loro, in generale capire cosa sta accadendo è estremamente utile alla persona malata.
Perché mai?
Perché l’ansia aumenta quando non capiamo e diminuisce quando comprendiamo quello che ci sta succedendo.
Capire cosa sta avvenendo nel nostro corpo ci consente di mettere a fuoco le risorse somato-psichiche ancora presenti. Non sapere, al contrario, mantiene nell’ansia e quindi deprime il sistema immunitario, impedendo l’attivarsi delle risorse residue per affrontare cure spaventose e sfibranti, quando non la morte stessa.
Normalmente il paziente sa già col corpo, perché ciò che sta avvenendo è presente nelle sue sensazioni.
La diagnosi può diventare quindi uno strumento di integrazione, perché permette alla mente di focalizzare ciò che il corpo sente, ma la cognizione non ha ancora metabolizzato. Così facendo si aprono le possibilità per progettare la cura il più serenamente possibile perché la confusione, che supporta l’ansia, viene meno.
Quando medici e familiari contraddicono con le loro parole, ciò che la persona sente nel corpo, la espongono ad una delle comunicazioni più ansiogene che esistano al mondo: la comunicazione paradossale, che non a caso è identificata come base da cui si sviluppa la follia. Questo, chiaramente, non può che avere l’effetto di aumentare il panico nel malato. Proviamo per un attimo a metterci nei suoi panni:
Sono abituato a sentire il mio corpo in un certo modo. Ogni movimento, ogni respiro hanno un loro modo, che è il mio.
Oggi qualcosa è cambiato, sento che quello che il mio corpo mi sta dicendo è particolarmente grave, ma non sono in grado di capire autonomamente cosa sia questo “grave”. Mentre succede tutto questo, il corpo smette di rispondere a dovere, si fa i fatti suoi. Non sono più in grado di agire in maniera autonoma: ho bisogno dell’aiuto degli altri e non posso farne a meno, ma soprattutto sento la necessità di capire cosa sta succedendo.
Sento che è grave, ma chi mi sta intorno, per paura di farmi altro male o perché non se la sente di riconoscere lui stesso ciò che sta avvenendo, mi propone informazioni vaghe, parzialmente incoraggianti e io non riesco ad avere il quadro di quello che sto vivendo. Non si accorgono di alimentare così la mia inquietudine? Nel loro non dire, dicono molto e mi fanno presagire mille futuri terribili.
Non si accorgono di mettermi nella posizione di un neonato, che non può capire e va protetto? Sono adulto! Cavolo, io sono adulto! Ho diritto, ma sopratutto ho bisogno di capire e di poter scegliere per me stesso. E ho bisogno di non essere privato del tempo per potermi preparare a quello che mi attende e di quello per salutare le persone che amo.
Vorrei dedicare qualche riga anche a chiarire come il punto che sto cercando di sviluppare non sia solo connesso al dire o non dire, ma anche e soprattutto al come dire!
La diagnosi se pronunciata con tempismo e delicatezza, che nel mio linguaggio significa darsi un tempo per accogliere e sostenere la reazione emotiva dell’altro, diventa un vero e proprio atto di cura: restituisce nuovo vigore al malato e gli dona la possibilità di pensare a come gestirsi sia in termini di cure fisiche, che rispetto all’organizzazione del tempo che gli rimane e dei propri affetti.
Quando la persona si ammala gravemente gli altri sono spesso portati, senza rendersene conto, a trattarla come se fosse tornata piccola: i medici tendono a parlare coi familiari e non col paziente, questi si assumono l’onere delle decisioni, come farebbero con un figlio piccolo, levando al loro caro la possibilità di agire e gestire ciò che gli sta accadendo, con le risorse adulte che invece ha ancora con sé.
Del resto se il malato è messo nelle condizioni di potersi occupare, con le sue risorse adulte, di ciò che gli sta accadendo, quando sarà prossimo alla morte la vivrà con molta più serenità rispetto a quando è privato di questa possibilità. La velocità non va a braccetto con la serenità, c’è bisogno di un tempo per accettare il cambiamento, quando questo spazio è concesso anche quello che sembra un futuro terribile, può essere vissuto con serenità, accolto. Quando ciò che sentiamo nel corpo è coerente con il nostro pensiero, possiamo riuscire ad avere una buona gestione emotiva e possiamo fare fronte anche agli scenari più tremendi.
Mi sono già dilungata sugli effetti di una diagnosi che non arriva. Ora vorrei spendere due parole su quando questa arriva, magari tardivamente (quindi avremo un malato che è in ansia da molto tempo), cadendo con una violenza devastante, per la velocità e la mancanza di empatia con la quale viene pronunciata.
Non ne faccio colpa alla classe medica, perché non è stata minimamente formata in questo senso, ma anche perché è sottoposta a una complessità di richieste, che nessuno da solo potrebbe adempiere.
Credo che il problema sia strutturale e connesso al fatto che nella nostra società c’è il mito del super-uomo, della super-scienza, anche nella mia professione si tende a pensare che la psicoterapia possa tutto! Follia!
La vera cura si compone di un atteggiamento umile e di un lavoro di squadra, dove tutti i soggetti in gioco partecipano alla rete, ognuno dando il suo specifico contributo, ma rimanendo sempre in dialogo costante tra loro, così da non perdere di vista la visione d’insieme, che nessun singolo può avere, ma che è fondamentale per poter guidare un processo di cura.
Auspico, speranzosa, a una collaborazione più frequente e reciprocamente fiduciosa tra medici e psicologi, così che possano nascere nuove prassi, in grado di migliorare notevolmente i processi di cura e di sostegno a malati e famiglie.
La buona riuscita degli atti di cura è enormemente influenzata dalla reazione emotiva del malato, dei famigliari, che gli danno supporto, ma anche degli stessi curanti!
Contribuire ad aver cura di chi cura, infatti, previene i frequenti “brutti modi” o le “mancanze” che, in ogni categoria, il burn-out del professionista comporta.
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